venerdì 23 novembre 2012

Nigeria...ancora persecuzioni per i cristiani...

Ancora scontri di natura interreligiosa nel nord della Nigeria. A scatenare l’ultima ondata di violenze un malinteso: ovvero un frase pronunciata male e scambiata per un’offesa al Profeta Maometto. È accaduto a Bichi, una città non lontana da Kano, la principale metropoli della Nigeria settentrionale.
Protagonisti e vittime dei brutali episodi odierni i due gruppi etnici rivali del Paese: gli Hausa, musulmani, e gli Igbo, cristiani e animisti. Secondo i quotidiani locali, che citano testimoni, a pronunciare la frase incriminata sarebbe stato un sarto Igbo, che avrebbe usato la parola “Chibuike”, che nella lingua hausa significa “abito”, ma sbagliando la pronuncia avrebbe detto “il Profeta è venuto al mercato”, insultando involontariamente il religioso e scatenando l’ira dei fanatici.
L’equivoco ha scatenato la rabbia della locale comunità musulmana che è andata a caccia di Igbo: negli scontri sono morte almeno quattro persone, mentre una chiesa e un negozio sono stati dati alle fiamme.
La dinamica è stata raccontata dal comandante della polizia locale, Ibrahim Idris, che allo stesso tempo non ha confermato il numero dei morti. «Quattro Ibo – ha affermato un residente – sono stati uccisi e un cadavere è stato gettato in un pozzo vicino casa mia». Un altro testimone ha aggiunto che le quattro vittime «sono state assassinate a colpi di machete».
Domenica scorsa violenze tra musulmani e cristiani si sono verificate nello stato orientale di Taraba: il bollettino di questi scontri parla di almeno 10 morti, decine di feriti e migliaia di sfollati. Nei giorni scorsi l’esercito nigeriano ha arrestato nella zona una cinquantina di persone coinvolte a vario titolo nelle violenze.


giovedì 22 novembre 2012

La presenza femminile al Concilio Vaticano II


Furono ben ventitré le donne presenti al Concilio Vaticano II e con un ruolo tutt’altro che simbolico. Capaci di determinazione, con prospettive innovative e per una parità di genere nella Chiesa.

E’ sintomatico che, quando il 14 settembre 1964, per l’inaugurazione della III sessione del Concilio, il papa salutò le uditrici (“le nostre amate figlie in Cristo…alle quali per la prima volta è stata data la facoltà di partecipare ad alcune adunanze del Concilio”), in realtà di uditrici in aula non c’era neppure l’ombra. Motivo? Non erano ancora state designate: infatti le prime nomine ufficiali avvennero dopo il 21 settembre. Perché – si chiede l’Autrice - questa clamorosa sfasatura dei tempi? “E’ difficile dirlo se non ipotizzando la resistenza di alcune personalità della Curia a far partecipare le donne” ad una assemblea costituita da soli maschi.

 Sta di fatto che la prima donna ad entrare in aula il 25 settembre 1964 fu una laica francese, Marie-Louise Monnet, fondatrice del MIASMI (“Mouvement  International d’Apostolat des Milieux Sociaux Indépendants”), sorella di Jean, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea.
Nonostante Paolo VI, l’8 settembre 1964 a Castel Gandolfo, avesse parlato di rappresentanze femminili al Concilio certamente “significative” ma “quasi simboliche”, non avendo diritto né di parola né di voto, ben presto queste ventitre straordinarie “madri del Concilio”, salutate con enfasi da alcuni “padri conciliari” con le parole “carissimae sorores”, “sorores admirandae” o “pulcherrimae auditrices”, trovarono il modo di partecipare in modo attivo e propositivo ai gruppi di lavoro, presentando memorie scritte e contribuendo con la loro cultura e sensibilità alla stesura dei documenti, in particolare di quelli riguardanti temi come la vita religiosa, la famiglia e la presenza dei laici (uomini e donne) nella Chiesa e nella società o, più semplicemente e prosaicamente, invitando a pranzo vescovi influenti ai quali comunicare i propri “desiderata”. In ciò incoraggiate dalla Segreteria di Stato che, nel settembre 1964, chiarì che la loro presenza non doveva essere intesa in senso passivo, essendo esse invitate a dare un apporto di studio e di esperienza alle commissioni incaricate di ricevere e di emendare gli schemi destinati alle sessioni conciliari.



mercoledì 7 novembre 2012

L'importante è mettersi in cammino.

Chi comincia a cercare ciò che ama finirà sempre per amare ciò che trova. Ti metti in cammino verso Est e magari raggiungi l'Ovest. Non è importante adesso. L'importante è mettersi in cammino. Altrimenti non arriverai da nessuna parte. E passerai il resto della tua vita a disprezzarti per ciò che avresti potuto essere e non sei stato. La meta iniziale del viaggio rappresenta solo lo stimolo per partire.

(Massimo Gramellini, "L'ultima riga delle favole", 2010)

domenica 14 ottobre 2012

I crocevia che l'evangelizzazione non può evitare.


Intervento del card. Gianfranco Ravasi al Sinodo per la Nuova Evangelizzazione. 
Nella cultura contemporanea sono molti i crocevia che l’evangelizzazione non può evitare.
C’è innanzitutto quello del linguaggio. Senza abbandonare la complessità del discorso religioso, è necessario saper adottare anche i nuovi canoni della comunicazione telematica e digitale con la loro incisività ed essenzialità e col loro ricorso al racconto televisivo per immagini.
C’è, poi, l’orizzonte della secolarizzazione. Essa non riesce, però, a eliminare la domanda religiosa e la forza dell’etica naturale. In questo ambito sta operando con successo il “Cortile dei Gentili” sollecitato da Benedetto XVI con la sua evocazione del Dio sconosciuto ma forse cercato da molti non credenti.
C’è un terzo ambito di evangelizzazione che è stato per secoli decisivo, ed è quello dell’arte che esige oggi di essere ritessuto secondo la nuova grammatica e stilistica delle espressioni artistiche contemporanee senza perdere il legame con la sacralità del culto cristiano.
C’è poi il crocevia delle culture giovanili con le loro esperienze socializzanti spesso rischiose ma anche dotate di una loro fecondità: si pensi solo agli eventi e alla pratica sportiva o al costante ricorso alla musica.
C’è, infine, il mondo della scienza e della tecnica, ormai trasversale a ogni etnia e cultura, al quale vorrei dedicare una considerazione specifica. In esso la fede non deve temere di inoltrarsi, avendo lo stesso sguardo di Cristo che contemplava vegetali e animali e ricorreva persino alle previsioni meteorologiche (Mt 16,2-3; Lc 11,54-55) per annunciare il Regno, sulla scia dell’Antico Testamento che nel creato intuiva una voce trascendente, come suggerisce il Salmo 19. Oggi il nostro sguardo può fissarsi con stupore anche sulla trama dell’evoluzione globale, dal fondo cosmico primordiale fino all’elica del DNA, dal bosone di Higgs fino al multiverso.
All’incompatibilità tra scienza e fede e alla prevaricazione dell’una sull’altra e viceversa, come è accaduto in passato e come talora accade, è necessario sostituire il reciproco riconoscimento della dignità dei rispettivi statuti epistemologici: la scienza si dedica alla “scena”, cioè al fenomeno, mentre la teologia e la filosofia si rivolgono al “fondamento”. Distinzione, quindi, ma non separatezza ed esclusione reciproca, essendo unico e comune l’oggetto, ossia l’essere e l’esistere. È, quindi, comprensibile che spesso scattino sconfinamenti e tensioni, soprattutto in campo bioetico.
Indispensabile è, perciò, il dialogo senza arroganza e senza la confusione dei livelli e degli approcci specifici. Come già indicava Giovanni Paolo II nel 1988, “ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l’altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e dove stiamo andando”. Lo confermava anche quel grande scienziato che fu Max Planck, il padre della teoria quantistica: “Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente”.

martedì 4 settembre 2012

Inshallah


In queste settimane in cui si inizia a programmare il nuovo anno scolastico o lavorativo, vi lascio un paragrafo di un libro che ho gustato a fondo quest'estate e che considero bello e ricco di spunti, anche al di là delle polemiche sulla veridicità di alcuni fatti raccontati.
Si tratta del romanzo “Tre tazze di tè”, che narra l'impegno dell'ex alpinista Greg Mortenson nella costruzione di scuole nei paesi più poveri di Pakistan e Afghanistan, al fine di vincere il terrorismo e l'odio tra i popoli grazie all'istruzione:
Mortenson attese nervosamente per mezz'ora mentre Sakina lasciava in infusione il po cha. […] Quando le tazze di porcellana con il tè al burro bollente fumarono tra le loro mani, Haji Ali parlò. “Se vuoi vivere bene in Baltistan, devi rispettare le nostre usanze” disse soffiando nella sua tazza. “La prima volta che dividi il tuo tè con un baltì sei uno straniero. La seconda volta sei un ospite onorato. La terza diventi parte della famiglia, e, per la nostra famiglia, noi siamo pronti a fare qualunque cosa, persino morire” disse posando affettuosamente la mano su quella di Mortenson. “Dottor Greg, devi trovare il tempo per condividere tre tazze di tè. Forse siamo ignoranti. Ma non siamo stupidi. Siamo vissuti e sopravvissuti qui per tanto tempo”. “Quel giorno Haji Ali mi diede la lezione più importante della mia vita” afferma Mortenson. […] “era un analfabeta, che praticamente non aveva mai lasciato il suo piccolo villaggio nel Karakoram. Eppure era l'uomo più saggio che avessi mai incontrato”.
(tratto da D.O. Relin, G. Mortenson, Tre tazze di tè, Rizzoli, 2008)

Nota a piè di pagina: perché Inshallah? Perché è una delle parole ricorrenti del libro e mi ricorda di rallentare, non è il correre contro il tempo ciò che risolverà i problemi: l'ultima parola è sempre di Dio e come Dio vorrà...

martedì 21 agosto 2012

Donare e ricevere l'intimità della casa-l'ospitalità/5

(…) Una particolare, preziosa maniera di quella comunione che si stabilisce sulla base del dono è l’ospitalità. Che cosa significa accogliere uno come ospite? Significa che qualcuno sta «fuori» e che lo si accoglie «dentro», nella propria intimità, nella propria casa. Questo «fuori» e questo «dentro» possono essere presi alla lettera se qualcuno è senza casa, o se è in visita, e lo si accoglie come ospite. Allora egli entra nella nostra casa, nella nostra camera e sta presso di noi, nella nostra intimità. Vera ospitalità significa ospitare qualcuno famigliarizzando con lui. Deve avere ciò di cui ha bisogno: cibo, bevande, cure, il tutto a puntino, preparato con proprietà e con larghezza secondo le nostre possibilità. Ma c’è dell’altro. Può anche darsi che permettiamo a qualcuno di varcare la nostra soglia, e che egli abbia la sensazione di essere rimasto fuori. Il corpo è entrato, non l’anima; ma l’ospite deve essere accolto non solo in quanto corpo ma anche in quanto anima. Ciò accade se fli si va incontro amichevolmente . l’ospite porta Dio tra di noi. Il Signore ha espresso questo concetto con le parole:«Ero per via, e mi avete accolto».
(….) Un saluto amichevole è già come una buona accoglienza, anche se di breve durata. È come una rapida sosta per subito ripartire, ma da senso di conforto. Oppure si può esercitare l’ospitalità anche per mezzo di un discorso: l’attenzione e la comprensione costituiscono come la porta attraverso la quale si fa entrare l’ospite. Egli si sente per un istante come a casa e se ne va riconfortato. Per questa ospitalità può anche darsi che non sia più necessario che chi è entrato se ne vada, che esli possa prestare per sempre in fedeltà e sincerità nella casa che ha trovato. Tutto ciò è bello, è il segno di qualche cosa di molto elevato. Quale sia il valore dell’ospitalità è noto solo da chi viene dal di fuori, a chi viene da ciò che è estraneo. Costui ci sente sollevare se cuori gentili e generosi gli offrono asilo.
Romano Guardini Lettere sull’autoformazione, Brescia 1994, Morcelliana p.37-40

sabato 18 agosto 2012

Donare e ricevere l'intimità della casa- l'ospitalità/4

(…) Prendere, dare: è come in ponte gettato tra uomo e uomo, ma due sono i piloni su cui poggia, e uno di essi si chiama appunto: ricevere. Se non c’è chi sa ricevere, il ponte crolla. Dobbiamo imparare, dunque, a chieder con semplicità, se abbiamo bisogno di qualche cosa, ad accettare con cuore aperto, a rallegrarci sinceramente, a ringraziare. Ricevere bene è già qualche cosa, anzi è una gran cosa: permette al dono di raggiungere il suo scopo, e ha quindi il suo scopo e la sua funzione, non meno del dare, nella realizzazione della situazione di «comunanza» tra i figli di Dio; e infine è anch’esso una prova d’amore ed è elemento indispensabile per la costruzione di quel ponte benedetto gettato da uomo a uomo. Chi avrà afferrato questo concetto, cesserà di vergognarsi. Chi sa di dover ricevere bene ha, nel suo intimo, lo stato d’animo di chi dice:«Sono contento perché ci sono uomini che sanno donare così».
Romano Guardini Lettere sull’autoformazione, Brescia 1994, Morcelliana p.37