lunedì 23 gennaio 2012

Sciuia sciuia

Piano piano: sciuia sciuia, dicono in Marocco. C’è un tempo per tutto, e un tempo per donarsi.
Un tempo per conoscere realtà diverse che aprono la mente, per poter capire che due mondi così differenti (l’occidente e il mondo islamico) hanno molto da imparare, l’uno dall’altro.
Anche in termini di affetto. In Marocco la riconoscenza verso l’altro si esprime attraverso baci sulle guance. Più ne ricevi, più capisci di essere stato un ospite gradito. Ed è così che senza aver fatto niente di straordinario, ti puoi ritrovare a ricevere anche una decina di baci, avendo semplicemente regalato un palloncino, fatto un tuffo in piscina o scambiato due parole. Sono queste le piccole emozioni che regalano ad esempio bellissime ragazze che, curiose e un po’ intimidite, spuntano dagli usci dei villaggi al passaggio di quattro “straniere” sulla loro terra.
“Il Marocco è un susseguirsi di porte che si spalancano a mano a mano che si avanza”, scrive Tahar ben Jelloun, scrittore marocchino da sempre impegnato nella lotta al razzismo. Sono le porte dell’invito a bere un the e le porte delle grandi feste come i matrimoni (non serve essere della stessa religione o avere le stesse usanze, basta solo condividere le gioia di momenti speciali!).
O ancora sono le porte di istituti e di ospedali che celano occhi di bambini abbandonati e disabili. Passare la maggior parte del tempo con loro non è stato facile soprattutto sapendo che avevamo di fronte bambini ed adolescenti lasciati in mezzo ad una strada perché “con qualche difetto”.
Se per i piccoli abbandonati (immaginatevi l’emozione di dare il biberon e cullare una trentina di bambini neonati in un ospedale!) le prospettive non mancano perché il Marocco ha un meccanismo di adozioni funzionante nel Paese (anche se non verso il resto del mondo a causa dei numerosi limiti posti dalla religione islamica) per i bambini e i ragazzi disabili esse sembrano non esistere. Situare le strutture ospitanti (che noi chiameremmo case-famiglia) al quinto piano di un ospedale significa chiudere il mondo a ragazzi che invece avrebbero voglia di tuffarsi nella vita senza pensarci un attimo. E non importa che a loro manchi la vista, l’udito, che siano giudicati un po’ strani o siano costretti a vedere il mondo seduti su una carrozzina, l’importante è vivere. Non penso che dimenticherò mai l’emozione di vederli alla scoperta per la prima volta di una piscina, del vedere i loro occhi brillare per un abbraccio e un gesto di affetto che troppo spesso manca.
Ma è soprattutto dentro alle porte delle case che è possibile ricevere lezioni di vita e scoprire la semplicità. Semplicità di persone come Karim, che non si vergognano di come sono fatte, che mostrano con orgoglio le mura della propria casa, costruita con dieci anni di fatica e non ancora ultimata: fredda e spoglia, con solo due materassi a terra ma con uno straordinario calore. Karim parla perfettamente francese: non avendo potuto andare a scuola, l’ha imparato per strada, perché –ci svela il suo segreto- conoscere le lingue è il modo migliore per stare al mondo. Ha la pelle secca, ruvida, segnata dal sole, dimostra 40 anni pur avendone compiuti da poco al massimo 30, e trasmette un coraggio e una determinazione da fare invidia: on doit marcher tout seul, dobbiamo camminare con le nostre gambe. Non vogliono essere compatiti, aiutati per carità, vogliono invece avere la possibilità di avere una futuro costruito da sé, con la forza delle loro braccia e con la determinazione. Determinazione di chi sa che la partita si gioca adesso, perché il mondo non aspetta, di chi scende in campo con la voglia di lottare, per conquistarsi un futuro!

Chiara Spinelli

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